Eccoci arrivati ad un’altra tappa nel nostro viaggio alla scoperta del panorama culturale napoletano, oggi si parla del lotto, gioco di cui Napoli è considerata la capitale.
Originariamente questo gioco nasce a Genova nel 1539 dalle scommesse illegali che si facevano sui novanta nomi dei candidati che sarebbero usciti dalle urne per le elezioni al Senato.
Ma la Chiesa e le autorità governative lo ritenevano un gioco pericoloso e immorale addirittura personaggi storici lo abolirono, ricordiamo: Vittorio Amedeo II nel 1713 e Giuseppe Garibaldi nel 1860.
Condannato dalla Chiesa come peccaminoso, fu abolito dopo il terremoto del 1688 poiché si pensava che fosse venuto quale punizione ai vizi dei napoletani.
Ma successivamente, per far fronte alla continua crisi finanziaria, il governo decise di legalizzarlo per trarne i dovuti profitti e dal 1817 fu stabilito che le estrazioni avvenissero ogni sabato.
Perfino i letterati si espressero negativamente su questo gioco come Matilde Serao: nel suo capolavoro Il paese di cuccagna analizza tutti i mali morali, sociali, economici e psicologici che il gioco del lotto ha causato nella società napoletana, come già aveva citato nell’opera Il ventre di Napoli (1884), dove dedica ben due capitoli al gioco del lotto e rivela che: “Il lotto è il largo sogno, che consola la fantasia napoletana: è l’idea fissa di quei cervelli infuocati; è la grande visione felice che appaga la gente oppressa; è la vasta allucinazione che si prende le anime. […] Il popolo napoletano, che è sobrio, non si corrompe per l’acquavite, non muore di delirium tremens; esso si corrompe e muore pel lotto. Il lotto è l’acquavite di Napoli.”
Anche Goudar in alcuni scritti condanna il lotto come fonte di arricchimento dello stato a spese del cittadino. Giustino Fortunato bandisce il lotto definendolo “la rovina economica e la corruzione morale della plebe”.
Ma cos’è il gioco del lotto per i partenopei?
Una speranza nei momenti di difficoltà economica si ricorre spesso a questo gioco con la speranza che una bella vincita possa far cambiare in meglio la vita del giocatore, specie ai tempi tristi e magri delle due Grandi Guerre mondiale, gli italiani all’epoca speravano maggiormente di arricchirsi coi numeri al lotto per poter così sfuggire da una cruda e meschina realtà, ricca di violenza e di dolore.
Secondo la tradizione i napoletani ricorrono alla smorfia del lotto per interpretarne i sogni, i segni più vari o le lettere dell’alfabeto a cui vengono assegnati per l’appunto uno o più significati numerici, e da essi poi si ricavano i numeri corrispondenti per giocarli al lotto.
In questo periodo di feste non vi capita mai di giocare alla tombola?
Anche questo è un altro gioco napoletano basato sull’estrazione dei 90 numeri per la realizzazione dell’ambo, terno, quaterna, cinquina e tombola. Ad ogni numero come consuetudine corrisponde una leggenda, una storia, una figura o addirittura un santo, basti ricordare i numeri più noti: 8 “ ‘a Madonna”; 13 “Sant’Antonio”; 33 “ll’Anne ‘e Cristo” (Gli anni di Cristo); 48 “‘O muorto che parla” (Il morto che parla); 57 ‘O scartellato (Il gobbo); 75 Pulcinella; 85 “L’anema d’o priatorio” (l’anima del Purgatorio); 37 “‘O munaciello” (il monaco).
La smorfia sostanzialmente è un libro che riassume le diverse tradizioni confluite nel gioco: quella orale, che collega i numeri ai sogni e ai fatti della vita quotidiana, e quella “colta” elitaria ed esoterica che usa la cabala per indovinare i numeri.
Il libro della Smorfia è diviso in due parti: la prima è un vocabolario che raggiunge anche le 50.000 voci, con termini in ordine alfabetico accoppiati ai rispettivi numeri, in pratica la versione scritta della Smorfia tramandata oralmente. In passato questa prima parte era rappresentata in versioni riassuntive, con immagini illustrate, destinate anche agli analfabeti.
La seconda parte del libro si occupa delle tecniche più raffinate per derivare numeri da altri numeri: “tavole rutiliane” e altre simili tabelle che giungono dalla tradizione della cabala. Questa seconda parte del libro era destinata a chi era almeno capace di far di conto e di leggere.
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