Suicidio Pompei, ipotesi istigazione

“Quello che fa più male non è la crisi economica, ma quello svuotamento che si è creato tra le persone”, queste le parole di don Antonio Staiano, parroco di Fornacelle, la frazione di Vico Equense dove viveva Arcangelo Arpino, l’imprenditore che si è tolto la vita lo scorso 10 maggio nel parcheggio del Santuario di Pompei. 

Un suicidio al quale l’uomo potrebbe anche essere stato spinto: è questa la terribile ipotesi al vaglio degli inquirenti. Dalle lettera scritte dall’imprenditore prima di uccidersi, infatti, emerge una verità inquietante: Arcangelo Arpino aveva credito per 80mila euro da persone di Vico Equense per lavori realizzati, ma mai pagati. Soldi che avrebbero consentito all’uomo di saldare il debito contratto con Equitalia, che ammontava a circa 70mila.

L’idea degli investigatori è che se Arpino fosse stato in possesso dei quei soldi, non avrebbe avuto alcun motivo per compiere il gesto estremo: proprio per questo il sostituto procuratore di Torre Annunziata Francesco Vittorio De Tommasi sta pensando di aprire un fascicolo contro ignoti ipotizzando il reato di istigazione al suicidio. Inoltre è sotto la lente di ingrandimento degli inquirenti anche la posizione del commercialista nominato da Arpino in una delle tre lettere lasciate prima di morire: secondo quanto scritto dall’imprenditore, il professionista non avrebbe sistemato le pendenza con l’agenzia di riscossione, nonostante fosse stato già stato pagato. Altra pista battuta degli investigatori è quella dell’usura, basandosi sulle dichiarazioni rese dalla moglie della vittima: a prestare i soldi potrebbero essere stati, secondo indiscrezioni rivelate dal ‘Mattino’, professionisti insospettabili della penisola sorrentina.

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